Piola: "Ho conosciuto due Lauda diversi divisi dal rogo del Nurburgring"
Giorgio Piola ha avuto una lunga frequentazione di Niki: "Il primo Lauda era un pilota dedito alle corse, alla conoscenza quasi maniacale della macchina. Il secondo è stato un campione di umanità e sincerità, miracolato da un brutto incidente che gli ha lasciato molta sofferenza".
Niki Lauda, McLaren MP4/2 TAG
Rainer W. Schlegelmilch
Quella di Niki Lauda è una perdita gravissima per la Formula 1, anche se, purtroppo, la sua era una fine annunciata, visto quello che era successo nel drammatico incidente al Nurburgring nel 1976.
Perdiamo forse il più grande pilota di F1, perché se Niki avesse voluto continuare a correre avrebbe avuto le carte in regola per battere il record di titoli vinti che è detenuto da Michael Schumacher.
Considero Lauda un uomo nato due volte: la prima è stata quando è venuto al mondo come noi tutti. Quello era un pilota molto freddo, calcolatore, un po’ troppo robot. Forse ancora più di Schumacher.
Quel Niki era poco loquace e molto puntato sulla conoscenza della tecnica della sua monoposto e si concedeva molto poco ai giovani. Quando l’ho conosciuto scrivevo per la Gazzetta dello Sport: con i giornalisti si teneva abbastanza a distanza. Era disposto a parlare solo della sua macchina, diventava evasivo sul resto.
Il rogo del 1 agosto 1976 durante il GP di Germania, dove ero presente per la Gazzetta dello Sport con Pino Allievi, ha di fatto “ucciso” il Niki della prima vita. L’incidente ha fatto… risorgere un’altra persona caratterizzata da una grande forza di volontà e tenacia e con un grandissimo coraggio.
Quella di Lauda era stata una rinascita proprio perché aveva lottato contro la morte in ospedale, vincendo anche quella battaglia. Si può dire che Niki sia stato un miracolato: in teoria, pochi altri sarebbero stati capaci di superare il dolore e l’agonia della prima vita.
Mi è sembrato davvero un miracolato quando si è presentato a Monza per il GP d’Italia 1976: le prime immagini erano davvero raccapriccianti perché ogni volta che si toglieva il casco si vedeva il sottocasco inzuppato di sangue, segno di una grandissima sofferenza.
È facile immaginare cosa significasse guidare una monoposto in quelle condizioni: le lacerazioni della pelle si sono allargate per le vibrazioni e i carichi della macchina.
Niki è tornato a correre ed è tornato a vincere. Ha perso il titolo mondiale 1976 non per colpa sua, ma per quello che è successo al Fuji. E non è stata una pagina di storia bellissima anche per James Hunt che si era aggiudicato il titolo, perché quel mondiale spettava a Niki Lauda.
Solo un po’ alla volta ero arrivato a capire che avevo di fronte un altro Lauda, certamente diverso. Per un po’ di tempo ero rimasto al primo Niki e, quindi, mi rivolgevo a lui a monosillabi come era solito rispondere il pilota austriaco che conoscevo.
Quando lo incontravo spesso non lo salutavo perché lo vedevo immerso nei suoi pensieri. Una volta, all’epoca della Brabham, mi venne incontro Sante Ghedini, l’ex ferrarista che gli faceva da addetto stampa che mi disse: “Ma lo sai che Niki quando parla di te dice: ‘quell’italiano è bravo ma stronzo perché non saluta mai!’.
Ero rimasto al primo Lauda, non avevo ancora inteso di quanto fosse cambiato il secondo. Sto parlando di una persona che è diventata un gigante proprio dal punto di vista umano. Il primo Niki era un fantastico pilota campione del mondo, il secondo è stato un gigante di umanità. E di sincerità.
Ricordo un episodio: nel GP del Belgio 1982 fu escluso dalla classifica perché la sua McLaren fu trovata sotto peso. I piloti, di solito, quando vengono squalificati per un’irregolarità sulla monoposto si disperano sostenendo che il provvedimento non era giusto e che hanno rischiato la vita inutilmente.
Niki nell’intervista dopo la gara di Spa mi disse con il suo linguaggio fatto di monosillabi: “Mia squadra fatta da grandi str…, io fatto figura da stupido a correre con macchina irregolare”.
L’austriaco diceva sempre la verità anche quando era dura, non si nascondeva dietro alle scuse. Con Prost compagno di squadra alla McLaren era stato un esempio di lealtà e gli aveva mostrato la sua stima anche se il più giovane Alain lo aveva battuto.
E non nascose il grande disappunto quando a fine 1985 scoprì che non sarebbe potuto restare alla McLaren perché c’era Keke Rosberg che si era già assicurato il suo posto. Avrebbe proseguito a correre e, invece, preferì fermarsi.
L’ho apprezzato anche nel ruolo di manager: anche nel ruolo di direttore non esecutivo del team Mercedes non ha mai avuto peli sulla lingua, dicendo sempre quello che pensava.
L’ho avvicinato in modo confidenziale quando l’ho incontrato nella hall di un albergo dopo che Sebastian Vettel aveva vinto il GP d’Australia 2018 e mi confessò: “Vedi quando la Mercedes tedesca ha vinto con Nico Rosberg pilota tedesco, la televisione tedesca ha avuto un’audience di 3,8 milioni di spettatori, mentre il successo di Sebastian con la Ferrari ha raccolto 4,8 milioni di spettatori.
E poi mettendosi una mano sul petto aggiunse: “Io lavoro per la Mercedes e quindi tifo per le frecce d’argento, ma quando la Ferrari vince il mio cuore batte”. Aggiungendo subito dopo: “Tu questo però non lo scrivi, vero…”.
Insomma Niki diceva quello che pensava anche con i giornalisti: le sue dichiarazioni spesso hanno fatto scalpore perché la sua verità era sempre tagliente come una lama, ma anche molto profonda, che faceva riflettere”.
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