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Dakar: da rimettere al centro l'uomo, non lo show!

Tre morti: si allunga la lista tragica, ma sono troppi i piloti che hanno rischiato troppo nella prima settimana

La Dakar si ferma. Ma non per esprimere cordoglio ai morti. Lo stop era programmato: è il giorno di riposo. A Salta la carovana del rally raid più difficile del mondo prova a tirare il fiato dopo la prima settimana di gara che si è rivelata un massacro di uomini e di mezzi. Tre morti in un giorno, in due diverse situazioni tragiche sono un tributo di vite che nessuna avventura si può permettere. Eric Palante, belga di 50 anni, è stato trovato ieri dal camion “scopa”, il mezzo dell’organizzazione che il giorno dopo raccoglie i relitti degli equipaggi che si sono ritirati. Accanto alla sua Honda CRF450X hanno scorto il corpo accartocciato di Eric. Morto stecchito! PALANTE ERA UN SIMBOLO Era uno degli entusiasti della Dakar: sposato, padre di cinque figli, alla sua undicesima partecipazione. Faceva parte dei più temerari: si è iscritto fra i piloti di moto che non avevano un’assistenza. Alla sera al bivacco, mentre gli altri concorrenti potevano riposare e rifocillarsi, Palante doveva andare al camion “casse” per approvvigionarsi dei pezzi di ricambio necessari a ripartire il giorno dopo. Non era uno sprovveduto, anzi quell’omone grande e grosso era indicato come un esempio, un simbolo. ANCHE DUE GIORNALISTI FRA LE VITTIME Ma ora non c’è più, allungando quella triste lista di morti che sembra senza fine, come se si stesse combattendo un’intifada, una guerriglia. Un lungo elenco di oltre cinquanta vittime che non ha colpito solo gli equipaggi in gara, ma anche gli spettatori o gli addetti ai lavori al seguito come i due giornalisti argentini di Super Rally, Daniel Eduardo D'Ambrosio, 51 anni, e Agustin Ignacio Mina, 20 anni, che giovedì si sono capotati con il fuoristrada Nissan finendo orridamente in un precipizio. LAVIGNE HA TIRATO LA CORDA Il paradosso di Eric è che l’Iritrack, il sistema di posizionamento satellitare, ha permesso di rintracciare facilmente il mezzo, non l’uomo. Si cercava una moto, non un cadavere! E allora si capisce come la tecnologia serva a poco, quando l’uomo perde il controllo della situazione perché sottoposto a condizioni limite. Per il fisico e per la mente. Dopo la Dakar troppo facile dello scorso anno (Hans Stacey, pilota del camion Iveco: “Eravamo abituati ad arrivare al bivacco alle due del pomeriggio, una pacchia!”) siamo arrivati all’estremo opposto. Etienne Lavigne, a capo dell’Aso, la società francese che organizza il rally raid, ha tirato troppo la corda. CATANESE E’ COLLASSATO! Basta chiedere a Francesco Catanese, il motociclista di Sasso Marconi, che ha avuto un collasso: i medici, giunti con l’elicottero, lo hanno salvato quando la pressione era già sotto i valori minimi vitali. La speciale da Chilecito a Tucuman si era trasformata in un inferno, con temperature torride sempre oltre i 40 gradi: "Il caldo era terribile – ha raccontato Francesco alla nostra Elisabetta Caracciolo – non avevo riposato ed ero stanchissimo dopo pochi chilometri. La speciale era di dunette fatte di sabbia morbidissima: le moto ci affondavano dentro. Quando mi hanno raggiunto le auto e i camion la fatica si è triplicata. Per la polvere alzata facevo fatica a respirare. Avevo il fiato corto: quando mi insabbiavo tirare fuori la Yamaha era un supplizio. Poi ho aiutato Camelia Liparoti, bloccata con il suo quad, e mi sono bruciato le ultime energie. Non ce la facevo più: avevo la mente annebbiata. Mi sono fermato con altri due piloti. Avevamo finito l'acqua: ne abbiamo chiesta alle auto e ai camion che passavano, ma nessuno ce l'ha data. Ho chiamato i soccorsi…”. TUTTI GLI ELICOTTERI NEI SOCCORSI Poi i suoi ricordi si sono annebbiati. Catanese è collassato. Ci sono volute cinque flebo a rimetterlo in sesto al bivacco. Non si contano i piloti che sono andati in ipertermia, perdendo il controllo delle proprie azioni. Gli SOS si sono moltiplicati e tutti gli elicotteri erano impegnati a soccorrere i piloti in difficoltà. Non c’erano mezzi per garantire la copertura della seconda frazione della speciale che poi è stata annullata. UN SILENZIO OMERTOSO Hanno raccontato che c’era troppo pubblico lungo le piste. Certo c’era molta gente, ma era solo una scusa per non dire la sacrosanta verità. Un silenzio inaccettabile. La sala stampa è blindata: hanno accesso alle linee wi-fi solo quelli che pagano il fee all’organizzazione. Chi si organizza con i mezzi propri si vede “inibito” a navigare su internet e a trasmettere i pezzi. Un modo per lucrare e per controllare l’informazione. Al di fuori da ogni realtà! SALA STAMPA BLINDATA I giornalisti al seguito della gara non sapevano nulla dei tre morti: le informazioni sono rimbalzate al bivacco dalle redazioni che avevano ricevuto dei lanci di agenzia da altre fonti che non erano quelle della gara. Il silenzio omertoso è agghiacciante. Ma qual è la paura? Che qualcuno s’intenerisca e decida di fermarsi, rompendo il giocattolo? DIFENDIAMO CHI CORRE OmniCorse.it ha deciso di seguire in diretta la Dakar 2014 e giorno dopo giorno stiamo constatando che la gara sradicata dall’Africa ha trovato una nuova dimensione in Sudamerica: ci sono storie umane straordinarie che affiorano dal racconto dei campioni che corrono per le Case ufficiali, ma anche e soprattutto da quei protagonisti che lavorano un anno intero pur di essere al via dell’edizione successiva. Non sono aspiranti suicidi, ma appassionati di un certo modo di correre (in moto, quad, auto o camion). Ben consapevoli che i rischi sono altissimi e vanno ponderati. E non saranno mai eliminabili, nonostante ci sia una tecnologia avanzata in supporto. IL FUTURO E’ APPESO A UN FILO Puntualmente ripartirà la campagna che chiederà la fine della Dakar con una facile demagogia. Il destino di questo affascinante rally raid è appeso a un filo: gli organizzatori sanno bene che la corsa è destinata a morire se dovesse ancora proporre un percorso troppo facile come quello dello scorso anno, ma non avrà un futuro nemmeno se spingerà i concorrenti (e non solo) a combattere più volte con lo spettro della morte anziché contro quello di un semplice ritiro in una gara. CONTA L’UOMO E NON LO SPETTACOLO L’altitudine di alcuni passi (si è arrivati a 4300 metri), la temperatura sahariana e certi passaggi improbi sono stati gli elementi di una miscela esplosiva: non hanno piegato in due solo le scorze degli uomini più duri, ma anche la loro anima. Ecco perché l’Aso dovrà riflettere, rimettendo l’uomo al centro della sfida, più dello spettacolo…

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